di Paolo Pombeni
Ecco dunque il primo “test” elettorale con le elezioni nelle Marche (ci sarebbero anche quelle in Valle d’Aosta, ma la situazione viene considerata peculiare e non se ne occupa quasi nessuno). Clima elettrico nei partiti, molto meno nel Paese in generale, ma sembra di capire nelle stesse Marche.
Il problema che tutti si pongono è capire come sta il nostro sistema politico: che lo si possa interpretare veramente dai risultati delle urne regionali è dubbio, ma qualcosa si può intuire da come i partiti le stanno affrontando. Qui la parola d’ordine è: polarizzazione ad ogni costo. Più scatenati nel destra-centro, per ragioni che esamineremo, appena un po’ meno scalmanati nel campo largo, ma anche qui la tensione è alta.
Tutto dipende dalla convinzione che ormai a votare vanno solo gli… arrabbiati, o almeno che sono questi a fare la differenza. La conseguenza è che bisogna eccitare lo spirito di fazione, l’identificazione nello scontro finale. A destra ci sono due strategie, che hanno punti di contiguità, ma non sono eguali. La Lega, o almeno Salvini e il suo complicato partner Vannacci, spingono per i temi più tradizionalmente reazionari: difendiamoci dall’invasione degli immigrati, basta con le tasse, alziamo tutte le barriere pseudo-identitarie che possono venire in mente. Questa è la strategia individuata per resistere al logoramento del consenso, ma trova opposizioni interne più decise di quanto appaia. Quelli che come Zaia, come alcuni uomini chiave della Lombardia, sanno di aver costruito il consenso sulla loro capacità di gestire in modo particolare il consociativismo diffuso (come hanno fatto per molti decenni in altre regioni il vecchio PCI e i suoi eredi) non sono contenti di questa nuova stagione. Stanno coperti per non essere accusati di eventuali perdite elettorali, ma forse quando queste si verificassero torneranno a parlare.
Meloni sta mettendo in campo una strategia parzialmente diversa. Non che ripudi chiaramente gli argomenti neo reazionari, ma sa bene che ha un consenso troppo vasto per raccoglierlo tutto su quelli. Punta allora su un serrate le fila legato a quello che volgarmente viene definito vittimismo, ma che è qualcosa di più sottile: è il ricordare che quella sua parte (larga) è stata snobbata in passato come stupida, insignificante, semplicemente neofascista, ignorando che portava in campo esigenze di un certo significato (e aveva ascolto in partiti che oggi non ci sono più). Ricordare questo passato, che viene ingigantito e drammatizzato ma che pure è esistito, significa mandare un messaggio subliminale a chi la sostiene: occhio che abbiamo conquistato insperatamente uno spazio (e un potere) che ci verrà sottratto se non facciamo muro, perché la nostra legittimazione ad occuparli non è stata affatto accettata (e infatti insiste che l’opposizione proclama solo l’obbiettivo di abbatterla non importa come).
La differenza rispetto al reazionarismo della Lega è che questa modalità può più facilmente essere ridotta a retorica per le elezioni, lasciando intendere che nel governare poi, a parte quando c’è da spartirsi posizioni di potere, si ragiona diversamente (lo si vede in politica estera e in politica economica).
La situazione sul fronte opposto è quasi simmetrica: anche qui il mito della radicalizzazione tiene banco e per il momento è dominante. C’è una inevitabile concorrenza fra il PD che vuole mantenere la sua posizione di partito più consistente della coalizione e il M5S che pensa di poterla sfidare contando sulle componenti più radicali dell’elettorato che si identificano più o meno anche in AVS. Schlein e i suoi consiglieri, incluso non a sorpresa il “tattico” Franceschini, pensano che se il PD sarà roboantemente “di sinistra” i gruppi dirigenti di quelle componenti staranno più volentieri con lei che con Conte, non fosse altro perché sanno di poter negoziare posizioni con una dirigenza meno volubile e imprevedibile rispetto a quella dei Cinque Stelle.
Ciò provoca però un problema notevole nel corpo del PD, che è nato dalla confluenza di varie tradizioni riformiste, che ha anche un certo radicamento di potere fondato su quelle esperienze, che non è veramente attrezzato al “movimentismo” se non come folklore (col vecchio PCI ci si riusciva, perché la dirigenza aveva davvero in pugno il partito e aveva una credibilità a tutta prova, cosa che non si può dire dell’attuale gruppetto dirigente del PD). Nella visione degli strateghi (termine eccessivo) pro Schlein tutto si comporrebbe per la crescita di qualche formazione “di centro” che senza rubare se non pochi voti al PD potrebbe dragare un po’ di consenso disperso, rimanendo però ancorata al ruolo di fare da stampella a loro, visto che l’attrattività di Conte verso quel mondo per così dire moderato è assai scarsa.
La componente del PD che viene dalle varie tradizioni del riformismo fino a quando potrà accettare di fare la ruota di scorta ai movimentismi schleiniani? Al momento essa è bloccata dal fatto che indebolire la segretaria e i suoi significa assumersi la responsabilità di lasciar vincere il destra-centro, perché al momento non esistono alternative al sistema della radicalizzazione bipolare.
Eppure se i problemi interni alla Lega esploderanno, se FI procederà sulla via di una gestione moderata, se la stessa Meloni capirà che per sostenere le sue ambizioni da statista sia in politica economica che soprattutto in politica estera le è necessario abbandonare il revanchismo destrorso, la distribuzione dei pesi politici nel nostro sistema nazionale potrebbe subire mutamenti. Una presa di contatto solida con questi cambiamenti sarebbe inevitabile anche nel fu centrosinistra, tanto più se l’opinione pubblica, lasciati i fuochi di paglia degli estremismi di questi ultimi mesi, inizierà a chiedere meno demagogia e più capacità di governo dei problemi.
Il problema che tutti si pongono è capire come sta il nostro sistema politico: che lo si possa interpretare veramente dai risultati delle urne regionali è dubbio, ma qualcosa si può intuire da come i partiti le stanno affrontando. Qui la parola d’ordine è: polarizzazione ad ogni costo. Più scatenati nel destra-centro, per ragioni che esamineremo, appena un po’ meno scalmanati nel campo largo, ma anche qui la tensione è alta.
Tutto dipende dalla convinzione che ormai a votare vanno solo gli… arrabbiati, o almeno che sono questi a fare la differenza. La conseguenza è che bisogna eccitare lo spirito di fazione, l’identificazione nello scontro finale. A destra ci sono due strategie, che hanno punti di contiguità, ma non sono eguali. La Lega, o almeno Salvini e il suo complicato partner Vannacci, spingono per i temi più tradizionalmente reazionari: difendiamoci dall’invasione degli immigrati, basta con le tasse, alziamo tutte le barriere pseudo-identitarie che possono venire in mente. Questa è la strategia individuata per resistere al logoramento del consenso, ma trova opposizioni interne più decise di quanto appaia. Quelli che come Zaia, come alcuni uomini chiave della Lombardia, sanno di aver costruito il consenso sulla loro capacità di gestire in modo particolare il consociativismo diffuso (come hanno fatto per molti decenni in altre regioni il vecchio PCI e i suoi eredi) non sono contenti di questa nuova stagione. Stanno coperti per non essere accusati di eventuali perdite elettorali, ma forse quando queste si verificassero torneranno a parlare.
Meloni sta mettendo in campo una strategia parzialmente diversa. Non che ripudi chiaramente gli argomenti neo reazionari, ma sa bene che ha un consenso troppo vasto per raccoglierlo tutto su quelli. Punta allora su un serrate le fila legato a quello che volgarmente viene definito vittimismo, ma che è qualcosa di più sottile: è il ricordare che quella sua parte (larga) è stata snobbata in passato come stupida, insignificante, semplicemente neofascista, ignorando che portava in campo esigenze di un certo significato (e aveva ascolto in partiti che oggi non ci sono più). Ricordare questo passato, che viene ingigantito e drammatizzato ma che pure è esistito, significa mandare un messaggio subliminale a chi la sostiene: occhio che abbiamo conquistato insperatamente uno spazio (e un potere) che ci verrà sottratto se non facciamo muro, perché la nostra legittimazione ad occuparli non è stata affatto accettata (e infatti insiste che l’opposizione proclama solo l’obbiettivo di abbatterla non importa come).
La differenza rispetto al reazionarismo della Lega è che questa modalità può più facilmente essere ridotta a retorica per le elezioni, lasciando intendere che nel governare poi, a parte quando c’è da spartirsi posizioni di potere, si ragiona diversamente (lo si vede in politica estera e in politica economica).
La situazione sul fronte opposto è quasi simmetrica: anche qui il mito della radicalizzazione tiene banco e per il momento è dominante. C’è una inevitabile concorrenza fra il PD che vuole mantenere la sua posizione di partito più consistente della coalizione e il M5S che pensa di poterla sfidare contando sulle componenti più radicali dell’elettorato che si identificano più o meno anche in AVS. Schlein e i suoi consiglieri, incluso non a sorpresa il “tattico” Franceschini, pensano che se il PD sarà roboantemente “di sinistra” i gruppi dirigenti di quelle componenti staranno più volentieri con lei che con Conte, non fosse altro perché sanno di poter negoziare posizioni con una dirigenza meno volubile e imprevedibile rispetto a quella dei Cinque Stelle.
Ciò provoca però un problema notevole nel corpo del PD, che è nato dalla confluenza di varie tradizioni riformiste, che ha anche un certo radicamento di potere fondato su quelle esperienze, che non è veramente attrezzato al “movimentismo” se non come folklore (col vecchio PCI ci si riusciva, perché la dirigenza aveva davvero in pugno il partito e aveva una credibilità a tutta prova, cosa che non si può dire dell’attuale gruppetto dirigente del PD). Nella visione degli strateghi (termine eccessivo) pro Schlein tutto si comporrebbe per la crescita di qualche formazione “di centro” che senza rubare se non pochi voti al PD potrebbe dragare un po’ di consenso disperso, rimanendo però ancorata al ruolo di fare da stampella a loro, visto che l’attrattività di Conte verso quel mondo per così dire moderato è assai scarsa.
La componente del PD che viene dalle varie tradizioni del riformismo fino a quando potrà accettare di fare la ruota di scorta ai movimentismi schleiniani? Al momento essa è bloccata dal fatto che indebolire la segretaria e i suoi significa assumersi la responsabilità di lasciar vincere il destra-centro, perché al momento non esistono alternative al sistema della radicalizzazione bipolare.
Eppure se i problemi interni alla Lega esploderanno, se FI procederà sulla via di una gestione moderata, se la stessa Meloni capirà che per sostenere le sue ambizioni da statista sia in politica economica che soprattutto in politica estera le è necessario abbandonare il revanchismo destrorso, la distribuzione dei pesi politici nel nostro sistema nazionale potrebbe subire mutamenti. Una presa di contatto solida con questi cambiamenti sarebbe inevitabile anche nel fu centrosinistra, tanto più se l’opinione pubblica, lasciati i fuochi di paglia degli estremismi di questi ultimi mesi, inizierà a chiedere meno demagogia e più capacità di governo dei problemi.
(da mentepolitica.it )
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