Gli incentivi fiscali a lungo termine per le piccole e medie imprese che assumono lavoratori svantaggiati non sono un costo per lo Stato, ma un vero e proprio investimento con ritorni tripli rispetto alla spesa iniziale. Per ogni euro investito in incentivi fiscali, lo Stato ne ricava almeno 3,5 tra risparmi e nuove entrate. Ragion per cui, un piano strutturale di agevolazioni fiscali garantirebbe un saldo positivo di bilancio già dal primo anno, rafforzando al tempo stesso crescita e coesione sociale. Ipotizzando un incentivo medio di 6.000 euro l’anno per 50.000 nuove assunzioni, il costo per lo Stato sarebbe di 300 milioni di euro annui. A fronte di questa cifra, i benefici sarebbero, dunque, ben superiori: 600 milioni di euro di risparmi sulla spesa per sussidi e ammortizzatori sociali e circa 450 milioni di maggior gettito fiscale e contributivo, per un totale di oltre 1 miliardo di euro. Il saldo netto positivo ammonterebbe quindi a 750 milioni di euro ogni anno. È quanto emerge da un’analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo cui i vantaggi non si esauriscono nel conto immediato. L’ingresso di nuove fasce di lavoratori nel mercato, in particolare madri single e disoccupati di lunga durata, porterebbe un aumento dei consumi stimato in circa 250 milioni di euro annui, con un effetto positivo sul pil pari a +0,15 punti percentuali e ulteriori entrate fiscali indirette. «Gli incentivi alle assunzioni non rappresentino solo una misura di welfare, ma una vera politica industriale. Si tratta di una leva essenziale per ridurre la disoccupazione, aumentare il tasso di occupazione femminile, affrontare l’emergenza manodopera che colpisce le imprese e accrescere la competitività del sistema produttivo nazionale. L'economia italiana, nel corso del 2025, presenta un quadro di crescita moderata ma con significative sfide strutturali. Il pil è previsto crescere del +0,4%, con un'inflazione al 2,1%, mentre il tasso di disoccupazione è atteso intorno al 6,4%. Le pmi rappresentano il pilastro dell'economia italiana, costituendo oltre il 90% di tutte le imprese, e impiegando il 66% della forza lavoro. Nel 2024 si contavano circa 15.900 startup e PMI innovative con un fatturato complessivo di 11,1 miliardi di euro. Tuttavia, il comparto manifatturiero è sceso a 48,40 punti, a giugno, indicando una moderata contrazione. Il quadro macroeconomico e le prospettive restano incerte. Per tutte queste ragioni, sono indispensabili nuovi sostegni da parte dello Stato e la manovra sui conti pubblici per il 2026 è una formidabile occasione per andare in questa direzione» commenta il consigliere nazionale di Unimpresa, Marco Salustri.
Secondo il Centro studi di Unimpresa, quando si parla di incentivi fiscali destinati alle piccole e medie imprese, l’attenzione tende a concentrarsi sul lato della spesa pubblica. Si sottolinea il costo per lo Stato, senza considerare adeguatamente i ritorni fiscali e macroeconomici che un simile strumento è in grado di generare. Un’analisi tecnica e basata sui dati dimostra invece che gli incentivi a lungo termine per le assunzioni di categorie svantaggiate non rappresentano un onere per le finanze pubbliche, ma un investimento con ritorni tripli rispetto all’esborso iniziale. L’ipotesi di partenza è quella di un incentivo medio di 6.000 euro annui per ogni nuovo assunto, sotto forma di credito d’imposta o esonero contributivo parziale. Applicato a 50.000 assunzioni, comporterebbe un impegno per lo Stato di 300 milioni di euro all’anno. In tre anni, la spesa complessiva ammonterebbe a 900 milioni. A fronte di questo investimento, i benefici sarebbero nettamente superiori. Ogni disoccupato costa allo Stato circa 12.000 euro l’anno tra sussidi e mancato gettito contributivo. Portare al lavoro 50.000 persone significherebbe risparmiare 600 milioni di euro annui. Inoltre, ciascun lavoratore occupato genera in media 9.000 euro di entrate tra Irpef e contributi. Moltiplicato per 50.000 unità, si tratta di altri 450 milioni di euro. La somma dei due effetti porta a oltre un miliardo di benefici annui, a fronte di 300 milioni di spesa: il saldo netto positivo è di 750 milioni l’anno. In tre anni, l’investimento di 900 milioni garantirebbe benefici complessivi per 3,15 miliardi, con un saldo positivo di 2,25 miliardi. Oltre ai risparmi e alle nuove entrate fiscali, esistono benefici indiretti spesso trascurati. L’ingresso nel mercato del lavoro di persone oggi inattive comporta un aumento del reddito disponibile, stimabile in circa 5.000 euro annui per ciascun lavoratore. Con 50.000 nuove assunzioni, questo significa 250 milioni di euro in più di consumi. L’effetto sui conti pubblici è duplice: da un lato, la spesa aggiuntiva sostiene la crescita del Pil di circa 0,15 punti percentuali l’anno; dall’altro, la maggiore domanda interna genera ulteriori entrate fiscali indirette, come l’Iva, per una cifra prudenzialmente stimabile in 50-70 milioni di euro.
Gli incentivi fiscali non vanno letti solo in termini di ritorno immediato, ma anche come strumento per affrontare fragilità strutturali del mercato del lavoro italiano. L’Italia registra un tasso di occupazione femminile fermo al 52,5%, ben 13 punti al di sotto della media europea. Le madri single, in particolare, hanno un tasso di occupazione poco superiore al 50%, con una donna su cinque che lascia il lavoro dopo la maternità. Queste cifre si traducono in una perdita di capitale umano e in un ostacolo alla crescita potenziale del Paese. Un piano di incentivi mirati alle madri lavoratrici e ai disoccupati di lunga durata contribuirebbe a ridurre tali divari. Inoltre, risponderebbe a un’altra emergenza avvertita dalle imprese: la carenza di manodopera. Nel 2025 il vacancy rate, cioè il tasso di posti vacanti non coperti, è salito al 2,3%, contro l’1,7% della media europea. Settori strategici come manifatturiero, edilizia e turismo registrano deficit di decine di migliaia di unità. Gli incentivi alle assunzioni permetterebbero di allargare il bacino di lavoratori disponibili e di sostenere la produttività. Per valutare l’impatto su scala più ampia, è utile considerare scenari alternativi. Con 100.000 assunzioni incentivate, la spesa pubblica ammonterebbe a 600 milioni, mentre i benefici diretti salirebbero a 2,1 miliardi: il saldo netto positivo sarebbe di 1,5 miliardi. Con 200.000 assunzioni, la spesa crescerebbe a 1,2 miliardi, ma i benefici arriverebbero a 4,2 miliardi, con un saldo di 3 miliardi. In ogni scenario, il ritorno per lo Stato è largamente superiore all’investimento. Ogni euro speso in incentivi genera almeno 3,5 euro di ritorno tra risparmi e nuove entrate. Gli incentivi fiscali a lungo termine destinati alle pmi che assumono categorie svantaggiate non devono essere letti come misure di welfare, ma come una vera politica economica. Gli effetti positivi si distribuiscono su più fronti: miglioramento dei conti pubblici, aumento del Pil, rafforzamento della competitività delle imprese, riduzione delle disuguaglianze sociali. In un contesto in cui la crescita economica resta debole (+0,4% nel 2025) e il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi in Europa, un piano strutturale di incentivi alle assunzioni rappresenta una scelta di lungimiranza economica. È un investimento capace di restituire più di quanto costa, sostenendo al tempo stesso lo sviluppo, la coesione sociale e la sostenibilità fiscale del Paese. (2 OTT - deg)
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