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Bipartitismo imperfetto
o pluralismo polarizzato?

Bipartitismo imperfetto <br> o pluralismo polarizzato?

di Paolo Pombeni

La duplice interpretazione sul sistema politico della prima repubblica proposta a suo tempo da Giorgio Galli e da Giovanni Sartori torna più che mai in campo dopo l’ennesimo test proposto dalla tornata di elezioni regionali di questo autunno. Spieghiamo in sintesi le due letture. Il bipartitismo imperfetto, figlio di un’epoca in cui si pensava che sul modello anglosassone la perfezione politica fosse la spaccatura dell’elettorato in due partiti, guardava all’idea che in Italia la “imperfezione” di avere molti partiti nascondesse il fatto che in realtà a contare davvero erano solo due, la DC e il PCI (che si trainava più o meno il PSI). Il pluralismo polarizzato proponeva invece di considerare che la pluralità dei partiti nel sistema italiano era un dato di fatto in cui ognuno stava saldo nell’occupazione della sua fetta di opinione pubblica, salvo per tutti la spinta a coalizzarsi per necessità intorno a dei “poli” che si contrapponevano.
Bene, a questo punto siamo ancora, se vogliamo guardare alle ultime tornate elettorali e ai tormenti che attanagliano i partiti nazionali. Le prove delle urne sembrano confermare l’instaurarsi di un nuovo tipo di pluralismo rispetto a quello della prima repubblica, ma simile ad esso sia per tecniche di gestione del potere, sia per relativa stabilità degli insediamenti (pur favorita da un allontanamento dalla partecipazione elettorale dei cittadini che riguarda ormai una metà abbondante degli aventi diritto). Nella frammentazione a cui nessuno vuol rinunciare, i partiti devono nuovamente trovare il modo di promuovere polarizzazioni che ne giustifichino le alleanze e talora le ammucchiate strumentali. Di qui il quadro che vede un blocco di destra-centro, un “campo largo” di sinistra con qualche venatura riformista, e il tentativo per ora piuttosto embrionale di dar vita ad un polo centrista.
Quasi a specchio c’è in una parte delle classi politiche l’ipotesi di spingere al ritorno di un bipartitismo imperfetto con lo strumento della manipolazione delle leggi elettorali. Si tratterebbe di costringere alla stabilizzazione delle aggregazioni intorno a due centri che dovrebbero essere più che dei primi fra pari, dei timonieri/governatori di ciascuna aggregazione. È quanto ci si propone di fare con una nuova legge elettorale che riservi un premio di maggioranza alla coalizione che raggiunge una certa soglia significativa di voti, coalizione che però avrebbe l’apice identificativo e organizzativo nel candidato premier obbligatoriamente indicato da ciascuna sulla scheda elettorale. Così si avrebbe un governo nelle mani sostanziali del “primo ministro” e una opposizione come ipotetico governo ombra anch’essa con un suo leader-guida: entrambi legittimati dal voto popolare (e di fatto un indebolimento ulteriore del sistema dei partiti agenti in parlamento).
La prospettiva che esce dalla tornata elettorale di quest’autunno è abbastanza ambigua. Da un lato essa legittima la continuità del sistema del pluralismo polarizzato. Ovunque il sistema si incentra su sei partiti più o meno riuniti in due blocchi senza che però questo in nessuno dei due casi ne faccia una formazione veramente compatta. Il destra centro vede FdI, Lega e FI che sono certamente una alleanza che regge, ma che certo non fa intravvedere la premessa della confluenza dei tre soggetti in uno nuovo unitario: anzi in ciascuno dei partiti la difesa della propria identità autonoma e diversa è dominante. Lo stesso accade nel cosiddetto “campo largo”, qui in maniera anche più evidente. Non solo i tre partiti, PD, M5S, AVS, sono tetragoni nella difesa dei rispettivi territori (e ci riescono, ovviamente con diverse e alterne fortune), ma in questo caso manca una figura che possa imporsi come leader al momento indiscutibile, come è invece il caso della Meloni sul fronte opposto.
Dall’altro lato nelle elezioni regionali si è tentato in tutti i casi di cercare un candidato governatore che potesse in qualche modo riferirsi al quadro di un bipartitismo imperfetto. Su questo versante l’operazione non è riuscita. Dove i gruppi dirigenti dei partiti centrali hanno imposto candidature-simbolo decise da loro è andata male, salvo un caso. Ricci nelle Marche, Tridico in Calabria, Cirielli in Puglia, sono stati chiaramente battuti, a testimonianza che il sistema del voto che fa perno sui simboli, magari anche televisivi, funziona poco. Hanno vinto in genere personalità radicate nella politica locale, anche a dispetto dei desiderata dei caminetti romani. Così è stato con Giani in Toscana, Occhiuto in Calabria e De Caro in Puglia. Non contrasta con questa lettura il fatto che in altri casi le direzioni nazionali abbiano avuto l’accortezza di puntare su candidati radicati nei sistemi regionali di riferimento: così è stato appunto con Acquaroli nelle Marche e con De Caro in Puglia. Più ambigua, ma non contrastante la situazione in Campania e in Veneto. Fico è stata una scelta decisa da logiche nazionali, ma ha vinto sia perché era comunque una figura radicata nel territorio, sia, soprattutto, perché supportata dal sistema di potere territoriale (il presidente uscente De Luca, il sindaco di Napoli Manfredi). Stefani, candidato leghista in Veneto, si è imposto grazie al traino di Luca Zaia e al fatto che era anch’egli più espressione del sistema di governo regionale che del salvinismo o delle logiche della coalizione nazionale.
Cosa si dovrebbe trarre da quanto sta accadendo? La lezione che viviamo in una ambigua fase di passaggio. Essa unisce una stabilità maggiore del previsto a livello complessivo (3 regioni alla maggioranza di governo, 3 al blocco delle opposizioni) senza che ciò impedisca di intuire che alcuni spostamenti di equilibri sono possibili a livello nazionale dove il radicamento dei partiti è molto più incerto. Contemporaneamente mostra il tramonto di una stagione legata alla radicalizzazione politica che andava a braccetto con la politica delle mancette per guadagnare voti: l’elettorato nel complesso gradisce poco e lo dimostra sia con l’astensione sia con la scelta di tenersi i governi regionali che hanno gestito una non semplice fase congiunturale. Lo fa vedere anche col sostegno chiaro a candidati governatori per lo più coi connotati di un riformismo realista e poco vogliosi di imbarcarsi in intemerate di qualsiasi genere (si vedano le dichiarazioni di tutti i vincitori, specie in quest’ultima tornata).
Verrebbe da dire che la stabilizzazione del nuovo assetto di un sistema che non è più quello né della prima repubblica, né della seconda (l’età berlusconiana), è ancora ampiamente in formazione.
(da mentepolitica.it)

(© 9Colonne - citare la fonte)
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