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La Consulta salva la legge pugliese
sul salario minimo. E adesso?

 La Consulta salva la legge pugliese <br> sul salario minimo. E adesso?

di Oronzo Mazzotta

 

Non è inopportuno segnalare l’importanza della sentenza della Corte costituzionale del 16 dicembre scorso (n. 188) che si è pronunciata su un conflitto sollevato dal Governo nei confronti di una legge della Regione Puglia. Anche se si tratta di una decisione che ha sancito l’inammissibilità delle questioni sollevate (o forse proprio per questo) nondimeno la Consulta ha fissato alcuni principi utili per il dibattito sul salario minimo garantito, ormai uscito dai radar della politica che conta.
In soldoni la questione nasceva dalla previsione di una legge pugliese secondo cui tutte le amministrazioni regionali (dalla Regione stessa alle Aziende sanitarie), devono indicare nelle procedure di gara per l’affidamento di opere o servizi in appalto l’obbligo per le imprese appaltanti di applicare ai loro dipendenti i contratti collettivi dei sindacati comparativamente più rappresentativi (e fin qui niente di eterodosso rispetto allo standard), ma con la precisazione che comunque la retribuzione minima tabellare per i lavoratori non può essere inderogabilmente inferiore a 9 euro l’ora.

Secondo il Governo questa previsione sarebbe in contrasto con l’art. 36 della Costituzione, che non prevederebbe un salario minimo per legge e con l’art. 39 perché verrebbe violata l’autonomia della contrattazione collettiva di determinare i minimi salariali.

Nel dichiarare inammissibile la questione la Consulta ha fissato una serie di principi utili per il dibattito sul salario minimo.
Il primo. La tecnica adottata dalla Regione ha la funzione di scoraggiare una concorrenza al ribasso fra le imprese, basata sul minor costo del lavoro, a discapito delle tutele del lavoro e della qualità dell’offerta. Si tratta – ne conviene la Corte – di un uso “strategico” dei contratti pubblici diretto al raggiungimento di obiettivi sociali, anche al di là dello scopo specifico per cui vengono sottoscritti. Del resto, aggiungo io, le c.d. “clausole sociali” all’interno dei capitolati di appalto di opere pubbliche rimontano alla fine dell’Ottocento e quindi non rappresentano una novità per il nostro sistema.
Il secondo e forse il più importante. La prospettazione del Governo che evoca un conflitto fra la legge regionale e l’art. 36 della Costituzione, basato sul fatto che l’ordinamento non prevede un salario minimo stabilito per legge, è puramente assertiva perché non chiarisce la ragione per cui una tale previsione possa porsi in contrasto con l’art. 36 Cost. Quest’ultimo, come abbiamo ricordato anche su queste colonne, prevede per il lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata ed equa, cioè tale da assicurargli un’esistenza libera e dignitosa. Nel dir questo la Consulta lascia intendere che l’attuazione dell’art. 36 costituisce un libro aperto che indica i fini e gli obiettivi, ma lascia impregiudicati i mezzi per perseguirla (un salario minimo prefigurato per legge, il rinvio ai contratti collettivi o altre tecniche). Per converso l’atteggiamento del Governo, che si attendeva un sostegno dalla Consulta, è, a dir poco, attendista e rinvia ad un futuro lontano ed incerto la soluzione del problema. La domanda è allora: fino a quando?

        

L’autore è Professore Emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Pisa

(© 9Colonne - citare la fonte)
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