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direttore Paolo Pagliaro

Le donne di Garibaldi / 3 - L’altra metà delle camicie rosse

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Le donne di Garibaldi / 3 - L’altra metà delle camicie rosse

"E' inutile! Queste ragazze non vogliono stare indietro!" sbotta il garibaldino e il Generale sobbalza per lo stupore scoprendo che "quei due giovanetti che nel gruppo dei più arditi tra gli Argonauti, volevan precederli verso il nemico, gareggiando a chi doveva affrontarlo pel primo" erano in realtà due donne. Quel 15 maggio 1860 - giorno della battaglia di Calatafimi, combattuta su una collina palmo a palmo dai Mille e da 500 picciotti siciliani sotto il fuoco di 3.600 fanti borbonici, la cavalleria e 4 cannoni - diventa così famoso non solo per quel "Qui si fa l'Italia o si muore!" (urlato da Garibaldi a Nino Bixio ma soprattutto all'atterrita stragrande maggioranza dei Mille: per lo più commerciati e avvocati , al loro battesimo del fuoco), ma anche per l'improvviso svelarsi di due giovani donne combattenti. E' lo stesso Garibaldi a raccontarlo nel suo romanzo "I Mille" che, ad Unità compiuta, verrà rifiutato dagli editori per i suoi contenuti imbarazzanti e che Garibaldi riuscirà a far pubblicare solo nel 1874, grazie ad una sottoscrizione popolare, aumentando così il suo amaro disappunto, che poi 5 anni porterà alle sue clamorose dimissioni da deputato per non volere "essere tra i legislatori di una paese dove la libertà è calpestata e la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la libertà dei gesuiti ed ai nemici dell'Unità d'Italia". Garibaldi scrive di come quei due ragazzi, per la loro "squisita bellezza", l'uno biondo, l'altro bruno, avessero già attirato la sua incuriosita attenzione: "I contorni dei loro fianchi però accusavano, più d'alcune svolazzanti treccie, qualche cosa esclusiva del sesso gentile". E ne esalta la destrezza militare non rinunciando ad una stoccata polemica: "Giovanissimi sì! Ma il moschetto lo maneggiavano da veterani; e siccome tali armi erano pure armi regie, il crik dei colpi falliti eran numerosi e la speranza della vittoria riposava sull'innestata bajonetta". Quindi descrive a tinte mitologiche l'apparizione di quelle che scopre essere in realtà due guerriere: "Nel turbinìo dell'assalto, della fuga, e della persecuzione, io vidi avvolgersi sempre fra i primi le due incantevoli creature. E per un momento trasportato dal calore della pugna, e dal fascino della bellezza, mi sembrò d'esser lanciato in quei tempi eroici ove i genii e le dee presiedevano agli eventi delle battaglie. Le due eroine, giacchè le conosciamo donne, avevano perduto nella mischia i loro fez e turbanti; dimodochè una capigliatura d'oro ed una d'ebano avean per un momento svolazzato sull'altipiano del Pianto del Romani. Esse indispettite d'essere state svelate, misero le ali ai piedi, e perseguirono disperatamente il nemico" e, prosegue, sarebbero giunte a Calatafimi se il ferito Francesco Nullo, zoppicando su un piede solo, non gli fosse corso dietro per fermarle. Poi, la sera, mentre riposa avvolto nel suo poncho sudamericano, disteso su una brandina posta su una buca che ha reso "termica" sotterrando della brace accesa sotto della terra (espediente da lui stesso ideato per difendersi dall'umidità che aumenta i suoi dolori artritici), Garibaldi narra della visita delle due ragazze che vengono a chiedergli perdono per "aver trasgredito l'ordine di non potersi imbarcare donne nella spedizione". Una è Lina, la sorella di un volontario, lombarda; l'altra è Marzia, romana. Invece di rimproverarle il Generale loda le "valorose" che, dopo avergli donato un mantello incerato preso ad un nemico, "si dileguarono nelle tenebre" e, racconta ancora, "io m'addormentai, sognando di battaglie, di dee, di genii, d'Italia intiera risorta, e la sveglia, con cui il mio tromba avea petrificato il nemico nel giorno antecedente, mi destò colla piacevole notizia: che il nemico avea abbandonata Calatafimi". Lina e Marzia entrano così nella leggenda con cui Garibaldi ammanta la storia delle garibaldine nell'impresa dei Mille. Perché furono diverse le camicie rosse del gentil sesso nell'esercito meridionale che giunse al Volturno. Anche se nell'elenco ufficiale - redatto da una apposita commissione che ci metterà ben 17 anni a stilarlo, grazie alle foto scattate ad ognuno dei partecipanti all'impresa dal genovese Alessandro Pavia - tra i 1.089 volontari che sbarcarono a Marsala (per la metà dal Lombardo-Veneto) figura una sola donna, la 38enne Rose Montmasson. Ex lavandaia savoiarda che aveva sposato Francesco Crispi nel suo esilio a Malta, si era travestita da uomo per imbarcarsi a Quarto sul "Piemonte" guidato da Nino Bixio (e il glorioso piroscafo che l'armatore genovese Rubattino aveva dato ai Mille dietro stipula di un atto segreto, garante Cavour, sarà poi messo a fare scalo tra Livorno e la Sardegna e, nel giugno 1872, condurrà a Caprera la scrittrice russa 30enne Aleksandra Toliverova che del 65enne Garibaldi, ormai sorretto dalle stampelle e con le mani artritiche, darà uno dei ritratti più commoventi, quelli di un uomo che si alza alle 4 del mattino, mangia frugalmente, lavora per ore alla sua immane corrispondenza). Nella campagna duosiciliana Rose Montmasson si prende quindi cura con così tanto coraggio dei feriti che viene ribattezzata affettuosamente Rosalia dai siciliani. Verrà poi ripudiata da un Crispi diventato un deputato ormai dimentico della causa repubblicana e quindi prossimo presidente del Consiglio, invaghitosi della nobildonna leccese Lina Barbagalli. Lui sosterrà che il suo matrimonio con Rose, a Malta, era nullo perché officiato da un prete scomunicato ma la Regina arriverà comunque a negargli il saluto pubblicamente, convinta della sua bigamia. Rose morirà in povertà a Roma, nel 1904, e si salverà dalla fossa comune solo grazie ad un loculo donato dal Comune. La Lina romanzata di Garibaldi è, probabilmente, l'esule veneta Tonina Masaniello Marinelli che combattè insieme al marito e venne decorata al valor militare, con il grado di caporale. Ma finirà povera e uccisa dalla tisi, due anni dopo, a Firenze e nel 1957 verrà sepolta a San Miniato, accanto a Virginia Menotti, la sorella del patriota modenese, dove avrebbe voluto riposare, quale sua ultima volontà, anche Ada Corbellini, poetessa che cantò le gesta dei garibaldini ("Hanno gli occhi fiammanti, lieta l'alma, prestissimo il piè, ed al suono di bellici canti corron sotto i vessilli del Re") e finì uccisa a soli 26 anni, da una difterite, e sepolta nel piccolo cimitero di Felino. Nella figura della bruna Marzia del Garibaldi scrittore si confondono invece tanti altri volti: da Luisa Attendolo Bolognini, che seguì in Sicilia il marito, il capitano garibaldino Biagio Perduca, alla senese Rosa Strozzi, che aveva invece perso il marito, il capitano Vincenzo Santini, lei solo 19enne, nella difesa della Repubblica romana e che, dopo i Mille, seguirà Garibaldi anche in Trentino e a Mentana. Campo di battaglia, quest'ultimo, sul quale il 3 novembre 1876 si ricorda anche l'esoterica presenza della 36enne occultista ucraina Helena Blavatsky, che a Londra aveva frequentato Mazzini e la massoneria gravitante intorno ad esso e che, in viaggio in Italia, non esitò ad accorrere a dare il suo aiuto al framassone Garibaldi, già Gran Maestro e giunto al 33.mo grado, il massimo, del Rito Scozzese. Helena, colpita da due pallottole al torace dal fuoco degli chassepot francesi (per difendere Garibaldi, come lei racconterà) e quindi creduta morta, verrà gettata in una fossa comune e salvata, come vuole la leggenda, da dei maestri della misteriosa Grande Loggia Bianca, comparsi come per incanto a soccorrerla. Storia certa è invece quella che la vedrà negli anni a seguire, ormai onorata fondatrice della Società Teosofica e diventata la più autorevole portavoce del pensiero filosofico e religioso orientale nel mondo d'occidente, indossare pubblicamente la camicia rossa e mostrare le sue ferite ad un braccio per testimoniare la sua impresa garibaldina. Si deve anche a lei il successo che il mito di Garibaldi incontrò anche in India dove ispirò lo stesso "Risorgimento" dell'Indostan e trovò punti di contatto con le gesta epiche del Mahabharata tanto da spingere diversi pensatori indiani a ritenere l'eroe nizzardo un illuminato. Ed infatti Lala Lajpat Rai nel 1896 pubblica una biografia in lingua hurdu di Garibaldi indicandolo, insieme a Mazzini e a Shivaji della Gita, il grande eroe indù, come un avatar, l'incarnazione di una divinità incaricata di far progredire l'umanità. Tornando all'impresa dei Mille, in Sicilia accorre anche la trentenne contessa piemontese Maria Martini Giovio della Torre, figlia del conte di Salasco, una sorta di virago (sciabolava e cavalcava come e meglio di tanti uomini) che aveva fatto di Garibaldi il suo idolo da quando lo aveva incontrato, sei anni prima, a Londra. Qui lei conduceva una vita da provocante bohème tra gli esuli italiani ("con due occhi neri che mandavano saette" è descritta in quegli anni), dopo aver lasciato il marito, il conte Enrico Martini Giovio della Torre, diplomatico sottile a cui Carlo Alberto affidò diverse missioni, già vedovo di una sorella di Luciano Manara e figlio di quella contessa Virginia che Hayez ritrasse nelle fantastiche vesti della Luna e in quelle della fanciulla oltraggiata nei Vespri siciliani, oltre che fratello della sofisticata contessa Emilia Taverna che, a Parigi, riceveva nel suo salotto la élite intellettuale francese e che non soffrirà mai i modi "passionari" della cognata. L'incontro con il Garibaldi tornato dal Sudamerica eroe dei due Mondi, accende i sentimenti romantici e patriottici della contessa che, in rotta sia con la famiglia del marito che con quella del padre e dichiarato il suo amore al Generale (che in realtà resterà sempre tiepido nei suoi confronti), diventa prima infermiera con Florence Nightingale in Crimea e poi si affretta a raggiungere il suo amore in Sicilia. A Marsala veste una stravagante divisa: una tunica ornata come quelle delle Guide garibaldine, un grande cappello piumato, stivali di pelle nera, armata di una lunga sciabola. A Milazzo ha modo di far valere il suo coraggio quando i cannoni delle navi borboniche sorprendono i garibaldini mentre stanno mangiando: "Fu un panico, un fuggi fuggi generale! Ma la contessa, buttato via un piatto d'insalata che stava mangiando, irruppe d'un tratto a cavallo colla sciabola in pugno tra gli artiglieri fuggiaschi sotto la gragnuola della mitraglia e li ricondusse, gridando sui pezzi, puntando poi ella stessa un cannone" scrive Giuseppe Bandi, cronista dei Mille. Ma i suoi modi capricciosi e la sua fama di donna leggera e salottiera non le attirano simpiatie tra i garibaldini. A Messina, Giuseppe Cesare Abba così la descrive, nel giorno di Ferragosto: "Ho veduto un ufficiale delle Guide camminare lesto lesto lungo la spiaggia, senza sciabola, proprio una donna, fianchi e seno. Bella, faceva l'aria da bambina, ma si guardava dietro con una coda d'occhio così serpentina! Gli ufficiali della brigata ne chiacchieravano; il colonnello Bassini scotendo la testa e il frustino, brontolava sordamente dietro quella figura. E' una contessa piemontese che corre la ventura; si dice che spanda balsamo, pietosa come una suora di carità; ma si aggiunge che il vecchio Dottor Ripari l'ha fatta cacciare dall'ospedale di Barcellona, dove essa voleva fare l'angelo sopra i feriti di Milazzo". E sembra che lo stesso Garibaldi si batta il frustino sulla coscia per reprimere il disappunto di fronte alla invadenza della stravagante nobildonna. Che pure gli dimostrerà una dedizione assoluta. Come infermiera tornerà a vestire la camicia rossa a Bezzecca e, nel 1870, lo seguirà nell'armata dei Vosgi per poi finire, 4 anni dopo, in miseria a Parigi, incarcerata per debiti. E in cella finirà di nuovo quando nel 1881 ripara a Londra, accompagnata dalla sua rumorosa corte di 23 gatti, 40 capre, due cani ed un asino, passione animalista che condivide peraltro con Garibaldi (che fu il fondatore, a Torino, nel 1871, della Regia Società per la protezione degli animali, oggi Enpa). Amici londinesi devoti a Garibaldi le trovano una casetta ma la eccentrica contessa mostra ormai i primi segnali di una follia che la condurrà a morire, nel 1914, ultraottantenne, in una casa di cura di Mendrisio, attorniata da drappi rossi. La contessa di Salasco doveva essere certo sopportata anche dalla 28enne Jessy White, la giornalista e infermiera inglese che sarà accanto a Garibaldi in cinque sue campagne militari. Con il marito Alberto Mario, tra gli organizzatori della fallita impresa di Pisacane, diventati la coppia di ferro del mazzinianesimo, sono finiti in carcere per due volte, per due volte hanno sofferto l'esilio. Alla notizia dello sbarco dei Mille accorrono a bordo del "Washington" con il generale Medici, che a giugno sbarca nell'isola la seconda ondata di rinforzi: 2.400 volontari tra i quali molti stranieri (perché l'impresa duosiciliana vide anche combattenti albanesi, serbi, dalmati, istriani, polacchi, ungheresi, russi, francesi, inglesi, canadesi, algerini, turchi, russi e persino indiani). Con sé Jessy porta i medicinali e i soldi del comitato delle "Signore di Garibaldi" promosso da Lady Shaftesbury (che in cambio a Garibaldi chiederà solo una ciocca di capelli) con cui finanzia l'acquisto delle ambulanze e l'allestimento degli ospedali per i feriti, aiutata dall'amico Achille Sacchi, che Garibaldi chiamerà "il medico che si batte", marito di Elena Casati, una delle più famose patriote mazziniane. E' Jessy che, sempre al fianco dell'eroe nizzardo, vigila sulla sua stretta dieta da vegetariano. Lo lascia solo nella battaglia del Volturno per chiedere a dei marinai di una nave inglese di armare i loro cannoni. Poi, biografa di Garibaldi come di Mazzini, sarà anche una instancabile promotrice di inchieste sociali, risiedendo in Italia. Il suo libro "La miseria in Napoli" del 1877 è considerato la prima inchiesta nella storia del giornalismo italiano e nel 1879 Giosué Carducci, criticando la scarsa attenzione della sinistra per le classi deboli, scriverà: "La democrazia conta un solo scrittore sociale: ed è un inglese, ed è una donna; la signora Jessy Mario". Jessy, in Sicilia, è alla sua seconda campagna con Garibaldi, dopo la Repubblica romana. E lo seguirà ancora a Bezzecca, insieme a Canzio e ai figli Menotti e Ricciotti (d'altronde nella terza guerra di indipendenza le donne saranno molte: dalla fiorentina Erminia Manelli che si sostituì nella divisa al fratello bersagliere ferito, combattè a Custoza e si arrese solo alla terza ferita alla 24enne senese Baldovina Vestri, figlia di un muratore, che trascinava via i feriti sotto il fuoco nemico, unica donna sepolta, in camicia rossa, nel quadrilatero dei garibaldini a Siena). E Jessy sarà a fianco del Generale anche a Mentana e in Francia. Ma il 7 settembre 1860 Garibaldi, per fare il suo trionfale ingresso a Napoli (dove quale massimo smacco per Francesco II arriva in treno usando la ferrovia di Portici, fiore all'occhiello delle opere pubbliche borboniche), sceglie due donne italiane. E meridionali: Emma Ferretti, la moglie dell'avvocato Nicola nella cui casa, a Salerno, è attivo il comitato d'azione che riunisce i patrioti campani ed Antonietta De Pace, la pasionaria del Sud, protagonista dei moti napoletani del ‘48 (salì sulle barricate travestita da uomo), poi della cospirazione mazziniana tra Campania e Puglia, che a Napoli cavalca accanto a Garibaldi avvolta nella bandiera tricolore. Tra i primi provvedimenti del Garibaldi dittatore c'è un vitalizio mensile di 30 ducati alla madre ed una dote di 2mila ducati alle sorelle di Agesilao Milano, il 26enne soldato borbonico che l'8 dicembre 1856, a Napoli, aveva colpito il re Ferdinando II con un colpo di baionetta al petto (miracolosamente attutito dalla fondina di una pistola sospesa sulla sella del cavallo) e impiccato 5 giorni dopo al grido di "Viva l'Italia e la libertà". Ma tra le prime firme dei primi decreti di Garibaldi c'è anche la concessione di una pensione ad Antonietta De Pace, cui affida la guida dell'ospedale del Gesù, mentre la direzione di tutti gli ospedali la mette in mano a Jessie White. L'anno dopo Antonietta animerà una raccolta di fondi per la terza guerra di indipendenza e, nella battaglia di Bezzecca, piangerà la morte di un nipote. Ma ciò non la fermerà e, nel 1870, la si ritroverà animatrice con Enrichetta Di Lorenzo, compagna del martire Pisacane, di un comitato di donne napoletane. Quando, quel 7 settembre, Garibaldi si affaccia dalla loggia principale di palazzo Doria d'Angri nella folla esultante le madri napoletane sollevano sulle braccia i loro bambini verso il loro "santo" che, sebbene nelle fattezze del più feroce degli anticlericali, improvvisamente arriva a spodestare San Gennaro. Tra le donne esultanti c'è anche Marianna De Crescenzo detta "la Sangiovannara", un altro mito popolare, ma dimenticato. E' la moglie di un oste del quartiere Pignasecca che, con fucile e pugnale, insieme a Raffaella Faucitano, detta Gigia, moglie di Luigi Settembrini, ha organizzato la resistenza delle donne napoletane. E' tale la sua fama che un giornalista francese dell'Illustration di Parigi le dedica un articolo: "Marianna ha una grande nobiltà di fisionomia. Passa dal voluttuoso languore della pigra napoletana, alla cupa energia del cospiratore, alterna il sorriso della giovane al ringhio del lupo affamato. Il suo colorito si accende o si fa livido, il suo sangue si agghiaccia o ribollisce. In un quarto d'ora di conversazione io vidi questa alternativa prodotta dai nomi di Garibaldi o di Francesco II, del Commissario Campana o di Vittorio Emanuele. Questa figura diventa un dramma. Marianna è l'oracolo del quartiere e spesso la sua Provvidenza. Distribuisce soccorsi e dà notizie, risolve dubbi, spiega la situazione, indica al popolo la parte che deve rappresentare, i suoi interessi e i motivi per cui gli conviene abbandonare i Borboni e seguire i signori, cioè ‘o re galantuomo' e Garibaldi". Tra le mani di donne che si levano a salutare Garibaldi a Napoli, ci sono anche quelle ferite di Enrichetta Ranieri che a forza di cucire segretamente, di notte, le bandiere tricolori con cui voleva che amici e parenti accogliessero l'arrivo del condottiero, si è fatta sanguinare le dita. E' l'energica sorella di Antonio Ranieri, l'intimo amico di Leopardi, moglie di Giuseppe Ferrigni e madre di Calliope (che ad ogni visita della polizia borbonica nella casa del marito, Antonio Capecelatro, protagonista dei moti del ‘48, getta la stampa compromettente in un pozzo per poi ritirarla fuori e farla asciugare). Ricorderà la nipote Enrichetta Capecelatro Carafa: "Mia nonna visse giorni di ebbrezza dei quali, molti anni dopo, non poteva parlare senza piangere, e mostrava una ciocca di capelli ch'ella medesima aveva tagliata sul capo di Giuseppe Garibaldi, l'eroe delle sue speranze e della sua aspettazione". Enrichetta Ranieri, insieme alla sorella Paolina, si fa promotrice di sottoscrizioni popolari tra le donne di Napoli. E' pagato da loro un prezioso finimento di corallo donato a Garibaldi ed una ricca tenda da campo per il nuovo re d'Italia. Ed il sindaco di Napoli si rivolgerà poi alle sorelle Ranieri per raccogliere bende e filacce da inviare agli ospedali militare per la campagna militare del 1866. Un'altra Enrichetta poi, quel 7 settembre 1860, è la prima donna napoletana che, rischiando di farsi schiacciare dalla folla, riesce a stringere la mano di Garibaldi giunto nel Duomo per presenziare al Te Deum di ringraziamento per la fuga del re Borbone. E' la 39enne Enrichetta Caracciolo e per di più è una suora. E addirittura, con un gesto tanto eclatante da rendere raggiante il "mangiapreti" Garibaldi, depone sull'altare il suo nero velo da monaca di clausura che, 20enne, le era stato imposto e che era stata poi perseguitata per il suo spirito ribelle (nel 1848 legge a voce alta i giornali liberali tra le consorelle analfabete e spaventate, al pianoforte suona brani di Rossini, ammira Tommaseo e Manzoni, nasconde nella sua cella le carte rivoluzionarie di un cognato). L'arcivescovo di Napoli Sisto Riario Sforza le aveva tolto i beni di famiglia, fatta rinchiudere, spinta per la disperazione a pugnalarsi per trovare la morte. Per Enrichetta, Garibaldi è quindi anche il "suo" personale liberatore. Dopo essersi smonacata davanti al suo eroe si sposerà con rito evangelico con il patriota napoletano Giovanni Greuther e diventerà una protagonista della lotta per l'emancipazione femminile a Napoli. Nel 1864 l'editore Barbera pubblica, facendosi cedere i diritti per una miseria, il suo libro "I Misteri del chiostro napoletano" che, tradotto in sei lingue e con otto ristampe, fu uno dei massimi bestseller della sua epoca. Nel 1866 pubblica un Proclama alla Donna Italiana; l'anno dopo, con la sorella Giulia, contessa di Cigala, anima un comitato a sostegno del disegno di legge di Salvatore Morelli per il riconoscimento dei diritti delle donne, del quale presidentessa onoraria è Teresita Garibaldi, figlia di Anita e in cui figura anche Caterina Baracchini, già infermiera della Repubblica romana e condannata a 15 anni nelle carceri pontificie e che, dopo l'Unità, viene nominata direttrice degli asili infantili di Napoli. Garibaldi, partendo per la battaglia del Volturno, non fa però in tempo a firmare il decreto di nomina per Enrichetta di ispettrice degli educandati di Napoli. E il neo-ministro De Sanctis opportunamente non riprende in mano la questione. Il mondo clericale, che a Napoli rimarrà sempre potente, infatti odia Enrichetta (ancora nel 1881, lei ormai sessantenne, si vedrà un attore, corrotto, fare un gestaccio in scena per farsi fischiare dal pubblico al debutto del dramma "La forza dell'onore" scritto dall'ex suora). D'altronde, ancora nel 1862, le maestrine dell'Educandato rifiutano di prestare giuramento allo Stato italiano. Ed inoltre Enrichetta non ha, prima dell'arrivo di Garibaldi, avuto quella influenza nei salotti nobiliari di Napoli che gioverà invece a tutte le protagoniste delle imprese educative e filantropiche della Napoli post-Borbone, tutte di stampo moderato. A riceve nel gennaio 1861 l'incarico di ispettrice dei regi educandati napoletani, dietro anche pressione di Luigi Settembrini, nominato ispettore generale degli studi, è quindi Adelaide Capece - figlia dell'ex vicerè del Messico, nipote dell'arcade Cecilia Capece Minutolo, zia della principessa Adelaide Pignatelli del Balzo, che diverrà tra le dame di corte più amate da Margherita di Savoia e fondatrice dell'istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli, amica di Croce e Gentile. E Teresa Filangieri, figlia del generale Carlo, reduce da Austerlitz e nipote del celebre illuminista e di una tutrice di Maria Luisa di Borbone, diventa la direttrice delle opere a sostegno dei mendicanti, le prime istituite dopo la partenza di Garibaldi da Napoli, finanziate da Lady Strachan, marchesa di Salsa; quindi, con tra i finanziatori anche la coppia reale, fondatrice di un ospedale per malattie infantili e poi la filantropa per eccellenza, ma apertamente anti-radicale, nella Napoli di fine Ottocento. A proposito di filantrope, diventa grande amica di Garibaldi, al suo arrivo a Napoli, la tedesca Giulia Salis Schwabe - che negli anni ‘70 fonderà un collegio secondo i sistemi tedeschi ed il primo "kindergarten" in Italia - e che gli invierà a Caprera il suo giardiniere (ad inviargli a Caprera fusti di castagno e tralci di vite - perché Garibaldi considerava la malvasia locale il "nettare più allettante" - è invece la contessa Teresa Trecchi, sorella di Gaspare, aiutante di campo di Garibaldi, che nel 1862 lo ospita nella sua villa di Maiatico, a Parma, dove accoglierà anche la figlia Teresita). Curiosamente la storia dell'impresa dei Mille nella sua ultima battaglia, quella del Volturno, ricorda due scrittrici cosmopolite, spregiudicate, straniere ma innamorate dell'Italia. Mentre Garibaldi si acquartiera nella Reggia di Caserta - e i garibaldini nel palazzo del vescovo che vive così momenti di baldoria mai visti prima - gli fanno visita infatti la francese Louise Colet che, malgrado i suoi 50 anni, conserva tutto il fascino della conturbante salottiera parigina, amante di Gustave Flaubert, sua musa per Madame Bovary, poi rimpiazzato con Alfred de Musset che la definiva "Venere in marmo caldo". E che dalla relazione con il Generale, che chiamava "le liberateur", trasse materiale per il suo libro "Naples sous Garibaldi". E ancora a Caserta, di ritorno da un viaggio nelle isole Eolie, arriva anche la quarantenne baronessa Maria Espérance von Schwartz, che tre anni prima era sbarcata a Caprera per conoscere l'eroe del quale stava scrivendo la biografia (sarà lei a sostenere che Garibaldi avrebbe avuto nella sua genealogia sangue tedesco. E una famosa tedesca, la 34enne scultrice Elisabeth Ney, nel 1867, all'Esposizione internazionale di Parigi, esporrà il busto di Garibaldi, accanto a quello di Bismarck, e l'opera gli valse il privilegio, l'anno dopo, di scolpire l'unica scultura a grandezza naturale di Ludwig II della Baviera, riuscendo a bloccare il misantropo re leggendogli l'Ifigenia in Tauride di Goethe durante le sedute di posa). La baronessa von Schwartz, al vecchio leone, a Caprera, aveva concesso le sue grazie nella selvaggia bellezza della sua isola e Garibaldi, inutilmente, le chiederà di sposarlo. Lei, comunque, gli garantirà sostegno ed amicizia per ben un ventennio: accorrerà al suo capezzale dopo la ferita in Aspromonte e si occuperà anche dell'educazione in Svizzera della figlia Anita che Garibaldi aveva avuto, nel 1859, da Battistina Ravello - serva nizzarda avuta a servizio a Caprera - e che morirà, 16enne, proprio nell'isola sarda a causa di una infezione. Quindi, dopo la vittoria sul Volturno, viene l'incontro di Teano. Stavolta l'unica donna della quale Garibaldi ricorda la vicinanza, in questo difficile momento, è Jessy White. Alla quale, il giorno dopo, un Garibaldi avvilito dice: "Signora, ci hanno messi alla coda!". Il marito di Jessy, Alberto Mario, farà la cronaca di quell'incontro, nel freddo mattino del 26 ottobre 1860 con un Garibaldi che accoglie il re, col suo codazzo di generali e ciambellani, tenendosi un fazzoletto di seta annodato al mento per proteggere le orecchie e la tempia dall'umidità. Alle sue spalle gli ufficiali garibaldini in camicia rossa. Poi il breve conciliabolo tra i due. Quindi i saluti ad un bivio. Il primo, il re, che va ad un pranzo regale allestito dai sui cuochi. Il secondo, il liberatore "licenziato", che si ferma ad un casolare per pranzare "seduto su una pancuccia, a due passi dalla coda del cavallo: stavagli davanti un barile in piedi, sul quale gli fu apprestata la colazione. Una bottiglia d'acqua, una fetta di cacio e un pane. L'acqua per giunta infetta". Rumina silenziosamente su quello che il re gli ha appena detto: ossia che vanno smobilitati i garibaldini, che tutto passa al comando dell'esercito regolare, che è respinta la sua richiesta di luogotenenza per un anno. Da parte sua Garibaldi rifiuta i premi della causa sabauda (il titolo nobiliare, la promozione a generale d'armata, un castello, una nave, una tenuta per Menotti, una dote per Teresita, la nomina di Ricciotti ad aiutante di campo del re). Nei suoi entusiastici resoconti a Cavour, il generale piemontese Luigi Farini, nominato viceré, si glorierà di non avere stretto la mano a Garibaldi. Quando, il 6 novembre, Garibaldi schiera in riga davanti alla Reggia di Caserta 14mila uomini, 39 artiglierie, 300 cavalli, nella vana attesa di un presentarm del re - che ha già firmato il decreto che 5 giorni dopo liquiderà il più grande esercito popolare della storia italiana (50milla uomini, dei quali 30mila meridionali) -, Garibaldi sa che quegli uomini non avranno nulla. Ai reduci ungheresi consegna le bandiere donate dalle donne napoletane, ai Mille di Marsala (rimasti 426) una medaglia donata dal municipio di Palermo. Due giorni dopo, il 9 novembre, dopo aver accompagnato il re nel suo ingresso a Napoli (si spesero 200mila ducati per i preparativi, tra cui archi e statue di cartapesta presto inzuppati da una pioggia incessante) e aver partecipato molto imbarazzato ad una cena di gala, è sul piroscafo americano "Washington" che lo scorta a Caprera. Il solo a darne conto è il giornale "L'Indipendente", diretto a Napoli da Alexandre Dumas, l'autore dei Tre Moschettieri, biografo dei Mille e loro "stilista" (a bordo del panfilo che lo portò in Sicilia organizzò una piccola fabbrica artigianale di camicie rosse). A Caprera Garibaldi sbarca con 2mila lire (messe da parte dal fedele segretario Basso a sua insaputa), alcuni pacchi di caffè e di zucchero, sacchetti di semi di fave e uno di fagioli, del merluzzo secco, dei maccheroni. E tre cavalli - la sua Marsala, Borbone, che aveva tolto ad un nemico a Reggio e Said, donatogli dal pascià d'Egitto - che saranno subito lasciati liberi a scorrazzare sull'isola. In una lettera del 22 novembre a Cavour Vittorio Emanuele II però metterà in dubbio l'onestà dell'uomo di Caprera: "Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certo, questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l'affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l'infame furto di tutto il danaro dell'erario, è da attribuirsi interamente a lui che s'è circondato di canaglie". Comunque è storia che il siciliano fra Giovanni Pantaleo - il cappellano francescano dei Mille che poi seguì Garibaldi in tutte le sue campagne fino in Francia e che a Napoli raccolse le offerte dei cittadini, rilasciando a tutti regolare ricevuta -, morirà nel 1879, a Roma, poverissimo. Ma se Garibaldi parte come un eroe defraudato, il re sabaudo se ne torna a dicembre, nella sua Torino, non lasciando certo un buon ricordo tra i nuovi sudditi meridionali. Nel dispaccio di Ruggero Borghi a Cavour da Napoli del 20 marzo 1861 si legge: "Il 14 fu la festa del Re, non lumi, non feste, non un evviva", "proclamazione del Regno d'Italia, silenzio di morte". Paradossalmente, poco più di un mese prima era stata la moglie del re Borbone Francesco II a guadagnarsi il rispetto delle genti meridionali (Sciascia ne teneva il suo ritratto nello studio). Nell'assedio dei piemontesi alla fortezza di Gaeta, caduta il 14 febbraio 1861, nella quale si era rifugiata con il regale consorte, Maria Sofia di Baviera, sorella dell'imperatrice Sissi, diede prova di tutto il suo coraggio, ponendosi sugli spalti ad incitare i suoi soldati e a curarne le ferite, a distribuire loro medaglie con coccarde da lei stessa confezionate, oltre che a tirare le fila della resistenza anti-sabauda (tanto che c'è chi ha avanzato l'ipotesi che sia stata lei la mandante dell'omicidio per mano anarchica di Umberto I di Savoia). Maria Sofia ebbe inoltre in comune con Garibaldi il ritrovarsi vittima di uno dei primi agguati massmediatici della storia italiana: nel 1862 i coniugi e fotografi Antonio e Costanza Diotallevi montarono una fotografia con il volto della ex regina sul corpo di una lasciva prostituta, facendo quindi giungere la pornografica immagine nelle corti di tutta Europa, sollevando uno scandalo senza precedenti. E destinatari delle stesse attenzioni dei Diotallevi erano stati anche lo stesso Garibaldi, come anche Mazzini, ritratto in pose tutt'altro che celebrative. Curiosamente proprio una importante dama borbonica Eleonora Ludolf, darà alle stampe uno dei primi resoconti dell'impresa dei Mille: "Le vicine tempeste". Lei era addirittura la moglie del ministro della guerra, Giuseppe Salvatore Pianell. Il generale sarà l'unico caso ex militare borbonico che entrerà nell'esercito piemontese conservando il suo grado, combatterà con coraggio nella Battaglia di Custoza, diverrà addirittura comandante del Regio Esercito al Nord, sarà anche deputato e quindi senatore a vita. Applausi, ma tutti di aristocratici e ricchi borghesi, sono quelli che il 2 giugno 1861, al Teatro San Carlo di Napoli, accolgono il re in occasione della presentazione di una cantata a lui dedicata su musiche di Vincenzo Capecelatro e parole della acclamata "poetessa del Risorgimento" Laura Beatrice Oliva. "Stella sabauda, il corso avanza, Roma e Venezia tu dei salvar", "Garibaldi e Vittorio! Viva il re! Viva il prode, viva il possente! Egli innalza quest'itala gente a una gloria che pari non ha!" le parole composte dalla 40enne contessa napoletana che era andata in esilio a Torino e poi a Firenze, dopo aver partecipato alla rivoluzione del 1848 insieme al marito, il giurista napoletano Pasquale Stanislao Mancini, che diventerà ministro ed anche istitutore del re Umberto (a Torino venne creata per lui la prima cattedra di diritto internazionale; è inoltre lui che cura la battaglia ventennale di Garibaldi per ottenere l'annullamento del suo matrimonio dalla marchesina Raimondi). Moglie e marito, con l'arrivo di Garibaldi, finalmente rientrano a Napoli e lo incontrano a Caserta. Con loro c'è anche la figlia 18enne Grazia, allieva di De Sanctis, che diverrà anch'essa una nota scrittrice e che annota così nel suo diario l'incontro con l'eroe: "Garibaldi mi ha baciato sulla fronte. Si è fatto tagliare una piccola ciocca di capelli, ha permesso che un suo seguace ci donasse un pezzettino della camicia rossa da lui indossata alla presa di Palermo". Le spoglie della poetessa Laura Beatrice Oliva e di suo marito riposano nel famedio dei napoletani illustri nel cimitero di Poggioreale, oggi in stato di abbandono.
(Marina Greco )

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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