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direttore Paolo Pagliaro

Eleonora Pimentel e le donne della rivoluzione

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Eleonora Pimentel e le donne della rivoluzione

C’è la statua nel cui piedistallo si conservano i resti di Corradino di Svezia, nipote di Federico II, che a 16 anni sfidò l’esercito di Carlo d’Angiò per riportare la corona sveva sul Sud Italia e sulla sua testa. Testa che invece rotolò via sotto la diele, l’antica ghigliottina teutonica, il 29 ottobre 1268, nella vicina piazza Mercato. C’è una lapide con cui i carmelitani, nel 1961, vollero ricordare che qui era finito nel sangue il sogno di un pescivendolo 27enne messosi a capo per 15 giorni di un popolo affamato: quel Masaniello che il 16 luglio 1647, allucinato da un veleno fattogli bere a tradimento, denuncia dal pulpito i congiurati filo-spagnoli, quindi si spoglia nudo, quale segno della sua onestà, e attende la morte che arriva di lì a poco a colpi di archibugio, la testa decapitata. Ma, nella Basilica del Carmine, nessuna lapide ricorda che qui c’è una delle fosse comuni dei giustiziati della Repubblica napoletana che, in piazza Mercato, nel punto oggi ricordato da un crocifisso su un lato della chiesa di S. Eligio, finirono afforcati e decapitati sotto la mannaia tinta di rosso  che, dal 3 agosto 1799 salì e scese sui condannati a morte, fermando la sua lama solo dopo oltre un anno, l'11 settembre 1800, sul corpo infelice di Luisa Sanfelice. A dimostrazione di quanto la mannaia borbonica non avesse nulla a che fare con la secca esattezza della ghigliottina francese (aveva la lama dritta mentre quella rivoluzionaria obliqua, per superare l’ostacolo delle vertebre) viene dilaniata dalla lama sulla spalla e il boia deve finire di tagliarle la testa con il coltello. Ciò che rimane dei corpi di una trentina di loro - che per 144 giorni avevano cercato di tenere in vita una repubblica tradita dallo stesso popolo come dai francesi (ma che gettò “il primo germe dell’unità” come scriverà Benedetto Croce) - è stato trovato, ridotto come cartone inzuppato di acqua, dagli speleologi di "Napoli Underground"  che nel febbraio 2009 hanno fatto quello che per 30 anni non era riuscito allo storico ottocentesco Mariano d'Ayala nelle sue “religiose reiterate ricerche” dei corpi dei martiri: si sono calati nei sacelli allagati del pronao della basilica, sulle tracce della ricerca della paleopatologa Marielva Torino e di Antonella Orefice, autrice del libro “La Penna e La Spada”. Su circa 8mila prigionieri in 124 - tranne pochi popolani tutti della classe “alta”: nobili, ricchi borghesi, militari, intellettuali - erano finiti per ordine dei famigerati giudici Guidobaldi e Speciale davanti ad un “Paradiso” che nulla aveva di celestiale. Così faceva di cognome il boia, tale Tommaso, originario di Montefusco, dal ventre dilatato da una ernia, che, sotto il sole di mezzodì come alla luce delle torce notturne, per mesi diede al popolino analfabeta la sua vendetta  contro chi aveva consegnato un intero regno da spogliare al generale francese Championnet, che era riuscito a vincere le ultime resistenze nella città stravolta da una settimana di guerra civile scatenata da 50mila lazzari insorti contro il sacrilego invasore (che in una settimana, finché il tricolore giallo, rosso e blu da Sant’Elmo, il 21 gennaio, sancì la nascita della repubblica, causò mille morti tra i francesi e 8mila tra i napoletani) usando lo stratagemma di San Gennaro:  quale suo primo atto ufficiale, il 24 gennaio, si recò in Duomo dove offrì a San Gennaro una mitria d'oro tempestata di gemme e fu esaudito nella sua “preghiera”: alla sua presenza avvenne la liquefazione del sangue. L’opportunista generale aveva infatti saputo che solo la processione delle reliquie di San Gennaro, decisa da un arcivescovo terrorizzato dai tumulti, era riuscita a frenare la furia popolare del 19 gennaio, che era culminata con l’assalto al palazzo dei Filomarino, con i fratelli duca Ascanio della Torre e l’abate Clemente denunciati dal loro barbiere e bruciati vivi in botti di pece ed un corriere di gabinetto, Antonio Ferreri, scambiato per spia francese e trascinato senza vita sotto la reggia reale. E fu così che, davanti ad uno dei comandanti della Rivoluzione francese,  San Gennaro divenne giacobino. E che nello stesso giorno Ruffo ricevette da Re Ferdinando, fuggito a fine dicembre a Palermo con i 72 milioni delle casse regie e tutta la corte  - il compito di liberare il regno. E il cardinale si pose sotto la protezione di Sant’Antonio e iniziò la sua campagna che portò alla riconquista di Napoli il 13 giugno, giorno di Sant’Antonio, ma con l’aiuto dei miscredenti turchi, insieme agli alleati russi. Così il boia Paradiso diede alla povera gente la sua vendetta per  quei 5 mesi che portarono solo tasse, sequestri, condanne a morte, vessazioni. Perché dopo una settima di euforia filo-francese - con  l’innalzamento degli alberi della libertà, il berretto frigio sulla statua del Gigante a largo di Palazzo, i balli e le orazioni patriottiche – il vero volto della repubblica, dal 29 gennaio, fu quello piuttosto laido del commissario politico francese Faypult che requisì ogni bene borbonico, dai monasteri alle porcellane di Capodimonte, portando quindi  ad “epurare” sia il troppo compiacente Championnet  che il capo del governo provvisorio, Carlo Lauberg , anima della cospirazione delle logge giacobine napoletane. Che così si salva la vita per la seconda volta:   decidendo di seguire Championnet in Francia, dove resterà a fare lo scienziato, due mesi prima del crollo della repubblica, Lauberg evita la condanna a morte che aveva già scampato nel 1794 nell’ondata repressiva con cui la regina Maria Carolina d’Asburgo decide di vendicarsi della morte per ghigliottina della sorella Maria Antonietta, bruciando i libri di Filangeri, vietando le riunioni intellettuali, arrestando i sospetti giacobini e mandando al patibolo Vincenzo Vitaliani, 22 anni, Emanuele De Deo, 20 anni, Vincenzo Galiani, 19 anni, e decine di altri nelle fosse penali. Quindi permettendo che il "partito inglese" pilotasse la politica estera del marito in chiave anti-francese con lord Acton primo ministro, la giovane moglie dell’ambasciatore inglese a Napoli, la splendida Emma Hamilton, sua chiacchierata favorita (era l’unica che in sua presenza non si inchinava e poteva voltarle le spalle) e poi la flotta di Horatio Nelson, amante della stessa Emma, nel porto di Napoli. I napoletani in quella estate del 1799 non piansero quindi quando il boia Paradiso accolse sul patibolo i rappresentanti di un governo che, a loro modo di vedere, era fatto solo di “pennaruli” che - non potendo fare nient’altro sotto il giogo francese - facevano suonare l’inno della repubblica musicato da Domenico Cimarosa (che solo grazie ai suoi fan nelle corti europee verrà salvato dal patibolo ma due anni dopo morirà esule a Venezia, con il sospetto di un avvelenamento ad opera di sicari borbonici) ed avevano legiferato sul calendario che aboliva i santi, sulla libertà di stampa, sulla coccarda tricolore obbligatoria e sui brevetti agli inventori. Arrivando alla loro legge più importante, l’abolizione della feudalità, il 25 aprile, quando ormai le truppe francesi si preparavano ad accorrere in Lombardia a fronteggiare il pericolo austriaco, condannando così l’effimera repubblica alla caduta, sotto le orde di Ruffo. E infatti un canto popolare che girava per i vicoli napoletani diceva: “Libertà ed uguaglianza, li denari vanno in Franza, e ntrì e ntrì nce fa la panza. E’ venuto lu francese cu nu mazzo ‘e carte ‘mmano. Libertè, Egalitè Fraternitè, tu arruobbe a mme, je arrubbo a tte”. Rinchiusi il 13 giugno a resistere nei castelli, i capi della repubblica si arrendono dietro promessa di Ruffo che avrebbero preso la via dell’esilio. Davanti a loro una città sconvolta dalla ferocia disumana dei lazzari con saccheggi, stupri, linciaggi, teste decapitate (per ognuna si pagavano 10 ducati) appese agli alberi della libertà. I guerrieri della Santa Fede si appostano vicino alle fogne per sorprendere i tanti che vi hanno cercato scampo. Chi è sospettato giacobino viene spogliato per cercare i tatuaggi, comprese le donne e “la bellezza e grandezza della persona” era “stimolo maggiore alla crudeltà”. Una donna vista ad una festa da ballo data da un generale francese viene trascinata con uncini da macellaio. L’ultima resistenza, nel piccolo forte di Vigliena, a Portici, vede cadere tra i 150 che combattono anche tre donne, con l’uniforme civica, al comando del prete cosentino Antonio Toscano. Che, quando vede che tutto è perduto, incendia il magazzino delle polveri invocando “Dio e libertà” e uccide oltre un centinaio di nemici. Ma proprio mentre in molti sono già saliti sulle navi in partenza dal porto di Napoli arriva l’ammiraglia di Nelson. Che prima fa credere di accettare i salvacondotti, poi li annulla e impone la linea del terrore. E’ l’estrema vendetta della regina Maria Carolina alla quale, si racconta, l’eroe di Abukir si sarebbe abbassato perché convinto dalla bella lady Hamilton. Quindi 8mila arresti in pochi giorni - tra cui Maria Francesca Alcubierre, incinta, che partorisce in cella una bambina che viene uccisa alla nascita - aprono la grande stagione del magistrato siciliano Speciale. Ufficiali, frati, artisti ammassati a centinaia nelle carceri attendono di essere interrogati da quello che Cuoco chiama “mangiatore di carne umana”. Si racconta che alla moglie del grecista Pasquale Baffi, ex bibliotecario del re che venne giustiziato l’11 novembre, rifiutando l’oppio, abbia detto: “Sei bella, sei giovane, vai cercando un altro marito”. Quando lesse la condanna a morte in faccia a Luigi Velasco, con il suo solito ghigno beffardo, il repubblicano, che era di mole possente, lo trascinò verso la finestra per buttarlo di sotto. Fermato da uno scrivano, l’uomo si suicida buttandosi nel vuoto. E c’è chi, anche in cella, non rinuncia a spegnere la sua forza illuminista. Il 38enne Andrea Vitaliani, impiccato  il 20 luglio, fratello del Vincenzo già giustiziato nel 1794, suonò in continuazione la sua chitarra, anche mentre ascoltava la sua sentenza. Ai Granili, dove in 300 sono rinchiusi in un fetido camerone, Filippo Guidi riesce a tenere per 2 ore al giorno le sue lezioni di matematica. Che spirito animasse il rifiuto della capitolazione lo si vede quando il 29 giugno il corpo del 47enne ex ammiraglio della flotta borbonica Francesco Caracciolo penzola da un pennone dopo essere stato processato sulla nave ammiraglia di Nelson, la Foudroyant. La prima sentenza di morte eseguita a Napoli (c’erano infatti già state nei giorni precedenti quelle di Ischia e Procida, dove il nobile Pasquale Battistessa era sopravvissuto dopo essere rimasto appeso alla forca per 24 ore ed era stato quindi scannato per finirlo) è quella dell’uomo che l’eroe della battaglia di Abukir odiava di più (dopo Napoleone). Si dice che l’acrimonia tra i due nacque quando Nelson scortò i reali in fuga alla volta di Palermo, sulla sua ammiraglia.  Nella bufera che imperversa in quei due terribili giorni di mare, tra il 23 e il 25 dicembre e  in cui muore anche il 17.mo e penultimo figlio del re, Alberto, di 7 anni. Solo la nave di Caracciolo, il “Sannita”, frange i tempestosi flutti con sicurezza e non rimane danneggiata. Approdati a Palermo Caracciolo viene lodato dal re e Nelson, la “leggenda vivente”, mastica amaro. E anche Acton prende in astio il generale di Mergellina che quindi  se ne torna a Napoli, dove sceglie di veleggiare in difesa della repubblica con i pochi vascelli scampati all’incendio della flotta borbonica. Quando il suo cadavere viene sciolto dal cappio, il 30 gennaio, a 24 ore dall’esecuzione, e buttato in mare, va a galleggiare proprio sotto gli occhi di un inorridito re, appena entrato in porto. Lady Hamilton, per i suoi “servigi”, il 21 dicembre 1799, riceverà l’onorificenza di Dama di Devozione dell'Ordine di Malta, traguardo impensabile per la figlia di un fabbro e per una ex maitresse di lusso (e infatti Londra se ne ricordò quando, nel 1805, morto Nelson a Trafalgar, lasciò che venisse incarcerata per i debiti contratti per mantenere il mausoleo dell’ammiraglio e che morisse alcolizzata e in miseria). Per i suoi “servigi”, le 124 condanne a morte, il boia Paradiso riceverà invece 860 ducati. E tra tali “servigi” vi era anche quello di aver negato, il 20 agosto, ad Eleonora Fonseca Pimentel la premura di fornirle degli indumenti intimi o almeno una  corda per legare l'orlo della sua veste che si sarebbe alzato quando il suo corpo sarebbe rimasto esposto legato alla forca, al pubblico ludibrio. Inutilmente la 47enne marchesa aveva chiesto di morire di scure anziché di laccio, “premura” che si applicava alla nobiltà: ma lei, figlia di nobili portoghesi, era considerata straniera. L’avevano catturata mentre tentava di fuggire vestita da ufficiale. Nella notte fra il 20 e il 21 giugno aveva guidato il gruppo di donne - tra cui la 23enne amica Margherita Fasulo  che morirà, insieme alla vecchia madre, esule e in miseria a Parigi - che, fingendo di essere popolane inseguite dai giacobini, erano riuscite a farsi aprire dalla guardie il portone di Castel Sant'Elmo, facendo cadere la fortezza nelle mani dei rivoluzionari.  Viene processata insieme al 27enne Gennaro Serra duca di Cassano, vicecomandante della guardia. Sebbene sia di 22 anni più giovane di lei, Eleonora gli è molto legata, ricambiata. Una consolazione per lei, sposata ad un ufficiale fedifrago e violento, che per le percosse le ha causato la perdita in grembo del secondo figlio, il primo morto in tenera età. Il suo pupillo viene decapitato - insieme al 30enne Giuliano Colonna, principe di Aliano - prima che lei venga condotta davanti al cappio. Lo “spettacolo” di Eleonora il boia lo tiene per ultimo. Già penzolano sulla forca il 48enne vescovo di  Vico Equense Michele Natale e i banchieri Piatti, padre e figlio, il 53enne Domenico e il 28enne Antonio e il 44enne  Vincenzo Lupo, presidente del tribunale militare. Prima di salire sul patibolo chiede di bere un caffè, poi, mentre il boia le mette il cappio al collo pronuncia la frase che Virgilio mette in bocca ad Enea: “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”, “Forse un giorno la memoria di questi avvenimenti ci sarà gradita”. Una frase che il popolo non capisce. E quello stesso popolo, che per mesi aveva cercato di convertire alla causa giacobina, dalle colonne del suo Monitore, l’organo di stampa della repubblica sul quale la poetessa - ammirata già 16enne da Metastasio e che la regina Maria Carolina aveva nominato, a 24 anni, sua bibliotecaria per poi licenziarla e farla arrestare quando si era convertita alla causa giacobina - si era scoperta prima giornalista politica italiana, per ore sghignazza sotto il suo cadavere afforcato e inventa una crudele satira: “addò è gghiuta 'onna Lionora che cantava 'ncopp'o triato mo abballa mmiez’o Mercato. Viva 'o papa santo ch'ha mannato 'e cannuncine pe' caccià li giacubine. Viva 'a forca 'e Mastu Donato! Sant'Antonio sia priato”. “Grazia” il cadavere di Eleonora un improvviso temporale estivo che obbliga i becchini a “spiccare” anzitempo i cadaveri esposti sulle forche e seppellirli nella vicina chiesa di Santa Maria di Costantinopoli.  Secondo i biografi i suoi resti, come quelli di altri giustiziati, sarebbero andati dispersi quando la chiesa venne abbattuta, nel 1836. E invece secondo la storica Antonella Orefice sarebbero stati traslati in segretezza nella cappella della famiglia Fonseca che quello stesso anno si andava costruendo nel cimitero di Poggioreale.  E una traccia, svelata dalla storica, porterebbe alla sua tomba. La statua della Religione e gli angeli che la circondano si voltano proprio in direzione del sacello in cui riposa la moglie di un discendente dei Fonseca, che di nome fa Eleonora ma della quale non si trova traccia nei registri.  L’autore della statua è Tito Angelini che realizzerà i bassorilievi, tra cui uno dedicato ad Eleonora, per il sacrario dei martiri, davanti Castel Sant’Elmo. Sacrario senza corpi. Per questo i resti mortali scoperti nella basilica del Carmine dovrebbero venire trasferiti  nel Mausoleo Schilizzi di Posillipo, che dovrebbe diventare l’Altare della Patria del Sud. Un progetto sostenuto dall’Istituto Italiano per gli studi Filosofici del quale la storica Orefice fa parte. E l’Istituto ha sede proprio in quello che fu il palazzo di Gennaro Serra di Cassano. Alla sua morte il padre, per lutto, chiuse l’ingresso principale che è stato riaperto solo nel 1999, 200 anni dopo.  Mentre il corpo di Eleonora penzolava il cadavere decollato del giovane duca e del principe di Aliano venne murato -  insieme a quello del 70enne don Nicola Pacifico, “canuto e grasso che appena si poteva muovere” come registrano i monaci della Compagnia dei Bianchi della Giustizia, che assistevano i condannati a morte -, nella Sala del Capitolo della chiesa del Carmine, in un luogo considerato impraticabile. Il boia Paradiso rende  poi, 9 giorni dopo l’esecuzione di Eleonora, un altro “servigio”: permette alla folla inferocita, il 29 agosto, di tirare giù dal cappio il corpo del 41enne Nicola Fiani, comandante della guardia nazionale e di lasciare che venga squartato e abbrustolito nella stessa piazza. Cannibale banchetto che fa un’altra vittima (secondo le cronache di Atto Vannucci, lo storico che nel 1887 pubblicò in 22 articoli sul giornale “L'inflessibile” una storia sui “martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848”): un uomo ucciso per essersi opposto a cibarsi del fegato del giustiziato. Anche il fratello di Fiani, Giambattista, pure di fede giacobina, il 17 febbraio, era rimasto vittima di una plebaglia feroce. Davanti alla madre, nella  nativa foggiana Torremaggiore, veniva massacrato dai contadini che si andavano facendo “sanfedisti”, mettendosi al servizio della guerra santa contro i padroni giacobini scatenata dal cardinale Fabrizio Ruffo che, sbarcato il 7 febbraio in Calabria agli ordini di 17mila uomini, ben presto andò ingrossando  le sue “armate della fede” a quota 40mila, vincendo le resistenze che i repubblicani opponevano tra Puglia, Basilicata e Abruzzo e stringendo in una morsa micidiale Napoli, abbandonata, da maggio, dall’esercito francese. Una avanzata che registra episodi di eroica resistenza: l’assedio di Altamura, davanti alle cui mura Ruffo teneva messa prima della battaglia e durante il quale gli assediati finirono per usare monete di rame come tiri a mitraglia e che, una volta caduta, patì un terribile saccheggio di tre giorni, con lo sterminio di donne, vecchi e bambini. E ancora la battaglia di Picerno, quindi detta la “Leonessa della Lucania”, durante la quale, le donne combattevano vestite da uomo e, per fare i proiettili, vennero fuse le canne d’organo delle chiese, i piombi delle finestre, infine gli utensili e gli strumenti di farmacia. Se Ruffo si serviva di ferventi contadini che cantavano “a lu suone de li violini sempe morte alli giacobini”, ma anche di celebri briganti come Mammone e Fra Diavolo (che il re nominerà colonnello e finirà impiccato nel 1806 sempre in piazza Mercato, nella Napoli di Bonaparte), il 32enne colonnello Ettore Carafa, figlio del duca di Andria, arruolava nella sua legione ex soldati borbonici ma anche inesperti adolescenti, come gli ex seminaristi che lui chiamava “prevetarielli”. Appoggiato dall’esercito francese Carafa vince nell’assedio di Andria, che lo vede correre con la scala sulle spalle per dare l’assalto alle mura, sotto il fuoco nemico. Poi, accorso a Pescara, senza più l’appoggio dei francesi, rimane isolato e travolto dall’assedio dei 4mila realisti comandati dall’ex galeotto Giuseppe Pronio. Ma resiste fino all’ultimo, quando già la repubblica è caduta a Napoli. Si narra che in uno dei balli che dava nel suo palazzo per tenere alto il morale dei suoi ufficiali una palla di cannone attraversò la sala, sfiorando i ballerini e sfondando un muro. Per fermare il panico Carafa costringe i musicisti impalliditi a riprendere a suonare ed abbraccia una dama atterrita facendo riprendere le danze. Condotto in catene a Napoli le agita in faccia al giudice Sambuti che lo insulta: “Ti fanno audace queste catene!”. E la condanna a morte è spietata: “Afforcato, precedente lo strascino e le tenaglie, indi fatto a pezzi, bruciato e le ceneri sparse al vento”. Per 15 giorni viene bloccato al muro da un collare di ferro. Ma, al tramonto del 4 settembre, con ancora indosso la lacera divisa da generale della repubblica, ha la forza di affrontare il patibolo a testa alta. Respinge il boia che vuole denudargli il petto e si spoglia da sé. Quindi rifiuta la benda come anche di inginocchiarsi sotto la mannaia, contro la quale si volge supino, per guardar scendere la lama. Le sue ultime parole: “Dirai alla tua regina come seppe morire un Carafa!”. Maria Carolina lo odiava. Lo chiamava “l’Arrabbiato”. Era uno dei pochi, spavaldo ufficiale di cavalleria e massone, che ardiva di girare per Napoli vestito alla francese, coi capelli corti, i calzoni lunghi dei sanculotti ed il panciotto rosso.  Quando  re  Ferdinando seppe come era morto disse: “O’ duchino a fatto o’ guappo fino all’ultemo!”. E la “damnatio memoriae” con cui il re Nasone, con un editto,  tenta di cancellare tutti i protagonisti della repubblica - persino il loro antesignano Masaniello le cui ossa vengono dissepolte dalla chiesa del Carmine e disperse - si abbatte anche su Ettore. Il fratello minore, Francesco, conte di Ruvo, viene graziato da Ruffo e chiama i suoi figli Ferdinando e Carolina. Persino il dipinto che ne tramanda il volto non è il suo. E il palazzo di famiglia, in largo San Marcellino, in cui Ettore riuniva tutte le menti della cospirazione anti-monarchica divenne una scuola intitolata alla regina Elena di Savoia. In quel palazzo si ritrovavano a tramare e a cantare la marsigliese, prima della presa di Castel Sant’Elmo, tutti coloro che dal 25 gennaio 1799, previo il vaglio di Championnet, festeggeranno il loro ingresso nel governo repubblicano (in cui il generale francese infilò un solo popolano, peraltro analfabeta, Antonio Ajello detto Pagliuchella; suo segretario l’ex lazzaro Michele “Il pazzo”, altrettanto analfabeta, che verrà impiccato il 4 agosto): Domenico Cirillo, Mario Pagano, Ignazio Ciaja, Giorgio Pignatelli, Giuseppe Albanese, Pasquale Baffi, Prosdocimo Rotondo. Finiranno tutti nella lugubre fossa del coccodrillo di Castel Sant’Elmo nella quale la 22enne figlia di un avvocato, Cristina Chiarizia (come la immortala un dipinto di Giuseppe Sciuti) riuscì a far entrare una lima e delle corde. Scoperta, riuscirà a salvarsi fuggendo travestita da uomo (la sorella, sorella di un colonnello, sarà invece arrestata) e, ironia della sorte, diverrà madre di un famigerato poliziotto borbonico, di Pietro Campobasso, e, in seconde nozze, di Epaminonda Valentini, il più famoso dei patrioti pugliesi del ’48, cognato della “pasionaria” Antonietta De Pace, che Garibaldi volle al suo fianco quando entrò nella Napoli liberata. L’evasione però, come racconta Dumas, fu sventata grazie al tradimento di due dei detenuti: il matematico Annibale Giordano e Francesco Bassetti. E, tranne questi ultimi, tutti andranno a morte. Il 24 settembre cammina verso la forca con il cappio al collo e a testa alta il 35enne generale  Gabriele Manthoné,  il “ministro di guerra e degli esteri”. Alla moglie che insisteva perché si dedicasse a non pericolose missioni diplomatiche a Parigi aveva risposto: “Il pericolo è qui”. E fino all’ultimo progettò una controffensiva su Capua e Gaeta contro Ruffo. Sul patibolo seppe del tradimento di Bassetti, uno dei suoi luogotenenti e lo maledisse a pugno chiuso. Il 30 settembre finiscono impiccato il 26enne “ministro delle Finanze” Prosdocimo Rotondo e decapitati i fratelli principi di Strongoli, prima il 26enne Mario e poi il 30enne Ferdinando Pignatelli. Mario, il 25 agosto, aveva sposato per procura Francesca Renner, l’orfana nipote del castellano di sant’Elmo della quale si era innamorato nella presa di Sant'Elmo.  L’1 ottobre tocca al 54enne Ercole d’Agnese, presidente della commissione esecutiva ed al 21enne Filippo De Marinis che Settembrini ricorda nelle sue Rimembranze come il marchesino sempre allegro che ballava il minuetto nel carcere di Santo Stefano. Prima che il boia gli tagli la testa “Filippetto” lo bacia. Aveva combattuto nella Compagnia della Morte, formata da 300 giovani, che alzava una bandiera nera con un teschio e la frase “Morte al tiranno!”. La madre tentò inutilmente di salvarlo. Ma il padre, il marchese di Genzano, non voleva sapere più nulla di lui. Nel giorno in cui i giudici  condannarono a morte  il figlio lui li ebbe a cena nel suo palazzo.  Il 22 ottobre vengono decapitati il 56enne colonnello reggino Francesco Grimaldi, comandante della guardia repubblicana. Per un mese ha atteso legato ai ferri l’esecuzione. La notte prima, mentre lo trasferiscono, riesce a divincolarsi dalla guardia armata e a tentare, inutilmente, la fuga. Finiscono sotto la mannaia anche due marchesi: il 53enne Onofrio de Colaci e il 21enne Giuseppe Riario Sforza. Sul patibolo guarda commosso l’anello nuziale che custodisce i capelli dell’amata moglie. Il 29 ottobre salgono i dieci fatidici scalini del patibolo il 60enne avvocato Mario Pagano, il “Platone di Napoli” che aveva scritto quella costituzione che la breve Repubblica non vedrà mai, insieme all’abate Giuseppe Cestari, direttore dei reali archivi, morto il 13 giugno combattendo sul Sebeto e al 41enne avvocato reggino Giuseppe Logoteta (che verrà impiccato il 28 novembre insieme al 43enne magistrato Domenico Bisceglie e al 40enne giureconsulto Giuseppe Albanese). Lo seguono il 63enne botanico Domenico Cirillo, amico di Linneo, Franklin e D’Alembert . La madre e la sorella, il 13 giugno, erano miracolosamente scampate alla devastazione della sua casa e del suo celebre orto botanico. Nelson gli aveva promesso la vita se avesse chiesto la grazia. Al giudice Speciale rispose: “In faccia a te, codardo, sono un eroe”. E ci sono anche il 48enne Giorgio Pigliacelli, ministro della polizia e della giustizia e il 37enne Ignazio Ciaja, che era stato “premier” della repubblica. Ultima ad essere giustiziata in piazza Mercato, in quella che fu definita una “vendetta a freddo”, decapitata quando questo tipo di esecuzione era stata già abolita il 30 maggio, è la 37enne Luisa  Sanfelice.  Aveva consegnato ad un ufficiale della guardia nazionale, del quale era innamorata, Ferdinando Ferri, un salvacondotto che le era stato dato da un ricco banchiere, Gerardo Baccher, che a sua volta la amava ma non ne era ricambiato. Voleva così proteggerla dalla congiura lealista che andava organizzando insieme al fratello. Ferri mostrerà il biglietto al 29enne repubblicano Vincenzo Cuoco che denuncerà la congiura. E i Baccher saranno giustiziati il 13 giugno, ultimo giorno della Repubblica. Luisa venne scovata in una soffitta. Il suo nome non sarebbe neanche uscito se Eleonora sul suo Monitore Napoletano non avesse pubblicato un elogio dell’eroina (Cuoco e Ferri se la caveranno con l’esilio e Ferri diverrà in tarda età anche ministro delle finanze borbonico!).  A Luisa, finita in carcere, la madre le suggerisce di architettare una falsa gravidanza per salvarsi. Medici compiacenti ne attestano lo stato. Da cui il celebre dipinto di Gioacchino Toma, pittore garibaldino, che raffigura Luisa intenta a cucire un abitino per il presunto bimbo da lei atteso. Ma, infine, Luisa viene trasferita a Palermo dove è accertato che non è incinta. Pochi giorni prima dell’esecuzione la nuora del re Ferdinando, la 23enne Maria Clementina d’Asburgo, figlia dell’imperatore Leopoldo II, partorisce un bambino. Quando il real suocero entra nella sua stanza per rimirare il nipote la giovane gli chiede che avrebbe rinunciato alle tradizionali tre grazie in cambio della grazia a Luisa. Pietro Colletta, uno dei 4mila esiliati, scrive: “La voce fu rotta dal piglio austero del re, mirandola biecamente, depose, o quasi per furia gettò l’infante sulle coltri materne e, senza dir motto, uscì dalla stanza né per molti giorni vi ritornò”. Il bambino, chiamato Ferdinando, morirà a neanche un anno. Maria Clementina lo seguirà di lì a poco per i postumi del parto e sarà sepolta con suo  figlio nella basilica di Santa Chiara, dove riposa anche il suocero. (Marina Greco)

  

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