Numeri, numeri, numeri: all’indomani dell’effettuazione dei referendum su tutti i giornali è un florilegio di cifre. I numeri del quorum non raggiunto, ovviamente, ma anche quelli dei sì e dei no ai vari quesiti, altrettanto ovviamente; e poi il conto dei votanti per il sì, allo scopo di trarne valutazioni politiche per il futuro delle coalizioni.
E fin qui niente di nuovo si direbbe, ma c’è di più e di curioso. In un commento, allo scopo di dimostrare il cattivo uso dello strumento referendario, si è preteso di fare un conteggio del numero di parole utilizzate nei quesiti referendari: ben 641 per 2.679 caratteri (quanto un articolo di giornale), che, se aggiunto all’impiego di termini esoterici (quali, udite udite: “contratto a tutele crescenti”) ed al riferimento a 9 leggi, 8 commi e 6 decreti diversi, avrebbe del tutto disorientato l’elettore. Non manca ovviamente la solita contabilità sulla diminuzione dei licenziamenti, delle cause di lavoro, del numero percentuale dei contratti a termine, etc., etc.
Non so se tutto questo sia vero e sospendo il giudizio. Il punto è un altro (almeno per me). Ho l’impressione che chi ha votato sì ai referendum sui licenziamenti (e sono tanti milioni di persone) ha espresso un convincimento forte, contestando l’idea che ha fatto da sfondo alla legge sul contratto a tutele crescenti e cioè che si possa fare politica industriale sulla disciplina dei licenziamenti. L’idea cioè secondo cui la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro all’interno dell’impresa e la millimetrica pianificazione del costo del licenziamento illegittimo (le tutele crescenti appunto) avrebbe dovuto favorire maggiore occupazione, attraendo gli investitori esteri.
Si tratta di un’idea smentita dalla storia oltre che dal voto di milioni di italiani. In primo luogo, tutti i barocchismi sul costo del licenziamento si infrangono contro una constatazione assai banale: un licenziamento legittimo non costa nulla. Ne deriva che tutta l’enfasi politica riposta sulla riforma si riduce in nient’altro che in un espediente per restituire al datore di lavoro un potere di libera recedibilità un po’ (un bel po’ dopo il decreto dignità) più costoso.
In secondo luogo, mi continua a sfuggire la ragione per cui l’imprenditore, quel capitano coraggioso che affronta impavido i mille rischi che il mercato gli propone (dal costo delle materie prime alle insidie della concorrenza) debba poter misurare con il bilancino del farmacista quanto gli costerà un licenziamento illegittimo.
A mio avviso, se si vuole tenere insieme produttività e competitività delle imprese e valori di cui è portatore il lavoro, occorre invertire la metodologia di attacco del fenomeno, prima mettendosi d’accordo sul pacco minimo di diritti intangibili del prestatore nel mercato del lavoro (a cominciare da salari decenti) e lavorare per così dire per differenza o per esclusione su di un terreno sgombro da ostacoli primari.
Si dirà che si tratta di un’utopia, ma, secondo Musil, l’utopia è solo una variante quantitativa della possibilità. E l’utopia è fatta della stessa sostanza dei desideri ed è per l’appunto un desiderio che vorrei esprimere.
Il mio desiderio è che chi ha la responsabilità delle scelte, pur procedendo doverosamente per sperimentazioni successive, ricominci a parlare la lingua degli uomini non quella dei numeri. Le cifre infatti – come ha scritto amaramente Guido Ceronetti – “non sono un linguaggio: sono banditi che rapinano Banche Dati”. Ecco è questo che vorrei; e chissà che, così facendo, non avvenga che la razionalità giuridica possa arginare e governare la razionalità economica, in qualche misura affrancando la cultura delle regole dalla posizione di minorità in cui spesso viene costretta nel dibattito contemporaneo. Ne risulterebbe riaffermata l'autonomia della dimensione giuridica e delle sue ragioni.
Oronzo Mazzotta è Professore Emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Pisa
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